La metro retrograda come esperienza musicale

Una delle cose più bislacche della mia nuova cittadina è che, a differenza di quanto accade nei paesi civili nel 2018, in metropolitana per la maggior parte del tempo il telefono non prende: la giustificazione “ufficiale” è che la metro di Londra scorre davvero molto sottoterra, per cui era un casino portare il segnale, e credo siamo tutti d’accordo che è una giustificazione che non sta in piedi, ma tant’è.

Tra i tanti motivi per cui il londinese medio detesta violentemente prendere la Tube (detestazione violenta che, per i canoni britannici, si esprime con un pacato “I’d rather not commute with the Tube if possible”), quindi, non ci sono solo l’affollamento e la temperatura tropicale in qualunque stagione dell’anno, ma anche la spiacevole sensazione, a cui devo ammettere non ero più abituato, di essere completamente sconnesso dal mondo senza averlo deciso intenzionalmente.

Tra le mille rinunce a cose che ero abituato a dare per scontate che questo comporta c’è il non avere più a portata di dito praticamente tutta la musica del mondo, ma dover al contrario pianificare in anticipo i miei ascolti: devo scaricare sul telefono, da Spotify o da Google Play Music, la musica che intendo ascoltare in viaggio, il che ha degli effetti che non mi aspettavo.

Quelli tra di voi che stanno un po’ più attenti al mondo di vecchi barbogi della critica musicale, di cui mi fregio di far parte, sapranno sicuramente che l’album come formato musicale è stato dato per morto a più riprese, in favore delle playlist, delle tracce singole e dei video di Youtube: chi me lo fa fare, d’altronde, di investire il tempo necessario ad ascoltare un album intero quando mi bastano due tap sul telefono per sentire qualunque altra cosa mi venga in mente e la mia soglia di attenzione è diventata quella di un pesce rosso?

Non voglio stare a infilarmi in discorsi complicatissimi sul destino dell’album, non mi interessa sapere se sia veramente un formato defunto né se questa eventualità sia un fenomeno positivo o negativo per la musica tutta, mi limito semplicemente a constatare che quando devi fare un viaggio in metro di media lunghezza senza rete mobile, o ancora quando prendi spesso aerei (altra cosa che mi accade piuttosto spesso ultimamente) e sei una persona musicalmente previdente, magari ti sei scaricato 1-2-3 album sul telefono, e per tutta la durata del viaggio non hai che quelli, siete solo tu e loro.

Va da sé che l’esperienza d’ascolto sia assolutamente diversa, e più simile a quella di cui parlano i nostalgici dell’album, quando da giovani risparmiavamo per giorni, se non settimane, per comprarci un CD e lo ascoltavamo in lungo e in largo fino a consumarlo e a sapere a memoria tutte le tracce, perché prima di avere di nuovo i soldi per comprarne un altro sarebbe passato del tempo.

Ora, il pippone colossale di cui sopra serve sostanzialmente a dire che ho avuto modo di ascoltare molto più approfonditamente del solito un po’ di album, dei quali quindi mi sento in diritto di parlare a ragion veduta.

Il secondo album dei Pillowtalk è così bellino che ne ho parlato anche di là: riprende i motivetti super orecchiabili del primo, che a distanza di anni risento sempre volentieri, e li declina in modi molto interessanti, sia in versione più danzabile che in modalità lenta e morbidona: se vi piacciono le sonorità stile Crew Love, e se non vi piacciono sappiate che siete delle brutte persone, con questo andate assolutamente sul sicuro, è quella roba a cavallo tra hip hop, funk, soul, disco e house che ci fa battere forte il cuore.
E sentito in aereo, mezzo abbioccato e mezzo no, arrivare all’ultima traccia, “Taking Care Of Us”, è un risveglio meraviglioso.

Questo ammetto di averlo scaricato sul telefono solo perché tutti i miei amici giusti che ascoltano la musica giusta ne parlavano in termini entusiastici, e devo ammettere che ho dei sentimenti mischiati in merito: ne riconosco il valore, è impossibile dire che sia un brutto disco, suona assolutamente da paura e ha sia una coerenza interna rara che un paio di tracce davvero protagoniste.

Cosa gli manca allora? Innanzitutto che è un genere che non è esattamente (più) la mia tazza di tè, il che un po’ contribuisce a rendermelo indigesto, ma più che altro il fatto che lo trovo un filo troppo retrò: in sostanza, bello, per carità, non dico di no, ma in larghissima parte è roba che ascoltavo ormai quasi vent’anni fa, e che vent’anni fa ascoltavo perché suonava come il futuro. Ora che suona come il passato, inevitabilmente, non può più suonare come il futuro, quindi grazie ma no grazie, la nostalgia la lascio volentieri ad altri.

Il vero missile terra aria, di cui non riesco a fare a meno mentre mi aggiro per i grigi tunnel della grigia capitale del Regno Unito, però è ovviamente il Fabriclive uscito in primavera da Dj Q.

Non c’è intero online, per cui dovete accontentarvi di questo mixatino che ci assomiglia molto:

E niente, della mia insana passione per lo UK Garage non ho mai fatto mistero, ma ascoltarlo vagabondando per lo UK stesso e sapendo che per loro questi suoni, queste bassate e queste percussioni supershufflate sono la musica dell’infanzia, sono quello che per noi sono Gigi D’Agostino, gli Eiffel 65 e gli Articolo 31 fa tutto un altro effetto.

Lo ascolterei comunque a ripetizione, perché obiettivamente – diciamocelo – è un mixato della madonna, composto quasi interamente da tracce mai uscite prima e senza neanche un momento di flessione, vario nonostante lo UKG rischi spesso di diventare formulaico e ripetitivo: non sono praticamente mai qui nei weekend, ma appena capita l’occasione non vedo l’ora di andare a tastare con mano un set di Q, che già l’anno scorso in terzetto con gli altri due dei TQD mi ha regalato grossissime soddisfazioni all’ormai abituale momento UKG del Sònar.

Morale, la mia gigantesca cartella “Scremami” dove salvo la musica nuova da scremare e nella quale sono costantemente almeno un paio di mesi indietro ha un sacco di album che devo ancora sentire, e adesso che ho queste lunghe pause senza connessione, forse, forse, riesco a smaltirne un po’.