La poesia dei sudoku
Sono un appassionato di sudoku da un sacco di tempo e nonostante un sacco di gente li detesti (anche se ci sono degli appassionati insospettabili, tipo che di fianco alla tazza del cesso di casa dei miei genitori c’è sempre un giornalino coi sudoku e una matita), al punto che qualche anno fa in un’estate ricca di tempo libero e di voglia di imparare cose nuove ho scritto un coso in Ruby che li risolve.
Non sono neanche lontanamente un professionista, mi sono stufato di approfondirne il funzionamento ben prima di arrivare a capire tutto il funzionamento di questo algoritmo elegantissimo di Peter Norvig che sostiene di essere in grado di risolvere qualunque sudoku del mondo, ma di recente mi sono interrogato (sì, di recente mi interrogo un sacco, e non è sempre un bene) su cosa sia che effettivamente trovo così attraente in una cazzo di griglia con dei numeri da completare.
C’è sicuramente un pochino di quell’OCD insito in qualunque nerd che si rispetti, nel fascino di estrarre dell’ordine da una situazione inizialmente criptica, come insita in qualunque nerd che si rispetti c’è della fascinazione per l’enigmistica, ma a modo suo credo che il sudoku sia anche, in diversi modi, una discreta metafora della vita.
Nei sudoku particolarmente difficili, ad esempio, capita spesso e volentieri di riempire una casella apparentemente slegata da tutte le altre, che sembrerebbe non dare nessun vantaggio rilevante e rendersi conto solo dopo che ne ha sbloccate alcune che sembrava non c’entrassero niente: altre volte capita davvero che riempire una casella non dia alcun vantaggio rilevante, ma non per questo non la si riempie, perché è comunque una casella in meno da riempire per arrivare a ottantuno, e ogni passo in avanti, anche minimo, conta.
In anni e anni di esperienza da “sudokista”, poi, ho imparato che esistono dozzine di tecniche diverse per approcciare il problema: puoi scegliere di partire dai numeri che compaiono tante volte e vedere se per caso riesci a metterli tutti e nove per poter non pensarci più, oppure puoi partire dai numeri che compaiono una volta sola e cercare di riempire la riga, la colonna o il quadrante che compaiono, sapendo che siccome hanno un numero “singolo” dovrebbe essere, almeno in teoria, più facile riempirli; puoi concentrarti sulle righe o le colonne con poche caselle vuote e cercare di completarle, oppure puoi prendere in considerazione quelle con tanti spazi vuoti ma dai quali puoi escludere dei numeri, e ovviamente quando pensi di essere bloccato la cosa migliore da fare è provare un’altra strada.
Nella mia conoscenza piuttosto naïf del funzionamento dei sudoku, inoltre, c’è una certa pigrizia che mi impedisce di proseguire con i sudoku in cui dovrei infilarmi in un albero di scelte col rischio di finire in un cul de sac, risalire fino alla scelta iniziale e prendere l’altra strada; in quel caso, invero piuttosto frequente nei sudoku molto difficili, banalmente sfanculo la griglia e ne inizio una nuova, quindi ho imparato anche a evitare di restare troppo incastrato su un problema: se risolverlo richiede un investimento di tempo e scelte che potrebbe rivelarsi fallimentare, passo ad altro.
Non so dire se questa filosofia di approccio ai sudoku sia quella giusta anche nella vita di tutti i giorni, anzi, probabilmente non lo è, ma sticazzi, è vero che i sudoku sono la metafora della vita ma le metafore spesso sono incomplete o parziali.
In ogni caso, sarà perché è un’invenzione dei giapponesi che sono maestri in questo stile, o perché sono un asino e trovo della poesia dove non c’è, ma credo davvero che nel prendere una griglia di numeri semivuota e ricavarne un insieme ordinato e coerente secondo le proprie, basilari, regole interne, sia una cosa estremamente poetica ed elegante.