Flinty
La notizia la sapete sicuramente già tutti, anche perché, ed è stato stupefacente, fino a quando nel pomeriggio è morto Luke Perry, tutti, ma proprio tutti, i miei contatti su qualunque mezzo di comunicazione noto non parlavano d’altro.
Quello che forse non sapete, o forse sì, è come l’ho presa io: non bene, per niente.
Si fa presto a dire le solite frasi di circostanza del pezzo di adolescenza che se ne va, ma per me, non solo in adolescenza, i Prodigy hanno significato un sacco.
(Premessa doverosa: lo sappiamo tutti che “i Prodigy” musicalmente in realtà sono solo Liam, ma sappiamo altrettanto tutti che Keith Flint era la faccia, e che da oggi “i Prodigy” come li abbiamo sempre conosciuti non esistono più)
In adolescenza, quando nella mia classe tutti ascoltavano i Nofx, i Millencolin e i Lagwagon, io ero quello che nascondeva la cassetta di “Experience” sotto il banco perché altrimenti mi toccava subire i pipponi su quanto fossi lo zarro che ascoltava della roba che non era musica.
In adolescenza, una delle cose che ascoltavo più spesso quando uscivo di casa col buio per andare a scuola, pedalando verso la metro, era Keith Flint che gridava “fuck’em and their law”; i Prodigy, più di tutto, sono stati la mia ribellione adolescenziale.
Facevano cagare a tutti quelli che conoscevo, dai miei compagni di classe a ovviamente i miei genitori, e dopo, molto dopo, ho scoperto che tantissimi dei miei migliori “amici di musica” erano nella stessa situazione, e ci siamo ritrovati, magicamente, poi.
Poi a un certo punto è arrivata MTV, è arrivato “The Fat Of The Land”, è arrivato questo:
È arrivato Wipeout 2097, è arrivato il video di “Smack My Bitch Up” che andava in onda solo a tarda notte perché ommioddio era scandaloso e quindi era fighissimo, sono arrivati tutti ad accorgersi di quanto cazzo fossero fighi i Prodigy, di quanto sapessero mettere d’accordo tutti, di quanto fosse completamente completamente pazzo Keith.
Poi sono passati anni, è passato quell’album là che non esiste come non esistono i tre Star Wars brutti (e che, a differenza di quei tre Star Wars, risentito anni dopo resta comunque una merda ma con alcuni momenti interessanti) e sembrava che i Prodigy fossero destinati a restare un ricordo dell’adolescenza, una di quelle cose che ascolti quando hai voglia di essere nostalgico.
Sì ok, c’erano stati degli episodi, tipo “Baby’s Got A Temper”, o tipo questo qui, che era solo la testimonianza che nella colonna sonora più figa di tutti i tempi loro non potevano mancare:
Ma in sostanza il mondo sembrava essere andato avanti, io sembravo essere andato avanti, per cui alla notizia che Liam stava lavorando su un nuovo album fondamentalmente avevo fatto spallucce, “e sticazzi?”
Poi però mi capitano in mano degli mp3 leakati di una versione non ufficiale di “Invaders Must Die”, ed è bellissimo devastante madonnamia ao te giuro davero stai mario, secondo tanti ma non secondo Liam, che decide di buttare tutto nel cesso e rifarlo da capo, e come al solito ha ragione, perché la versione definitiva è ancora meglio.
Ancora meglio al punto che decido che dopo più di dieci anni che li seguo, adesso che ho un lavoro e dei soldi e sono “grande”, posso prendere un aereo e venire a vederli nella cittadina in cui, ironia della sorte, mi trovo adesso.
La sfiga è che due anni prima avevo visto “Alive 2007” dei Daft Punk, per cui nell’ambita competizione per il concerto più bello a cui sia mai stato quella data lì alla Wembley Arena si prende solo la medaglia d’argento, ma hai detto niente: anche se ormai ero troppo vecchio e altolocato per il parterre (dieci anni fa, vabbè) e avevo dei posti in una signorilissima tribuna, resta comunque la sudata più enorme mai fatta a un concerto: ricordo il tragitto verso l’hotel come un’impresa titanica, compiuta ovviamente senza un minimo di voce.
Insomma, ormai ero un adulto, un affermato giornalista musicale di quelli che vanno ai festival con l’accredito stampa e volo e hotel pagati, eppure dello Snowbombing dell’anno dopo il ricordo più bello non è la festa in piscina, non è il party per pochi intimi nell’igloo con Fatboy Slim: è il labbro spaccato saltando sotto un misto di pioggia e neve mentre Keith grida “now, the writing’s on the wall, it won’t go away, it’s an omen”, è la sensazione assurda che ormai li ascolto da quindici anni, sono dei signori di mezz’età e io non sono più un ragazzino eppure lui è ancora completamente completamente pazzo, Maxim fa ancora paurissima, e Liam è ancora di un altro pianeta.
E anche se non sono più un ragazzino ma sono un affermato giornalista musicale, quando mi arrivano nella mail le risposte, stringatissime, di Liam alle domande che gli ho fatto per l’intervista ho di nuovo quindici anni e sono ancora, come sempre, un cazzo di fanboy: quando esce un disco loro nuovo la recensione tocca sempre a me, perché sono quello che li conosce meglio, che significa anche che sono quello che patisce di più quando realizza che gli ultimi due album, soprattutto l’ultimo, sono così insulsi da non essere nemmeno brutti, ma in fondo al cuore so che se anche pubblicassero un disco di cover di Al Bano dal vivo sarebbero sempre devastanti, perché Maxime fa sempre paura, perché Keith è sempre completamente completamente pazzo e tirerebbe in mezzo a saltare anche mia nonna.
Ma invece Keith, oltre a essere completamente completamente pazzo sul palco, oggi scopro che aveva una parte completamente oscura, che l’ha portato a decidere di andare via.
E oltre a essere triste perché è andato via uno che mi ha accompagnato per tutta la mia “vita” musicale, uno che pensavo sarebbe stato completamente completamente pazzo per sempre, sono triste perché è andato via uno che stava male in un modo che dall’esterno era completamente inaccessibile, che non c’era verso di spiegare agli altri e che gli altri, quelli che lo vedevano da sotto il palco mentre si spaccavano gioiosamente le labbra, non sarebbero mai riusciti a vedere dietro il personaggio con quelle creste diventate simbolo di una generazione.
Forse, la verità è che nessuno riesce a essere completamente completamente pazzo per sempre, e a un certo punto la si smette di spaccarsi le labbra e urlare nelle fogne: “O muori da eroe, o vivi abbastanza a lungo da diventare Vasco Rossi”, si intitolava la mia recensione dell’ultimo album, così brutto e povero di inventiva da farmi scomodare il paragone col gran visir della musica di merda.
Forse il peso dell’idea di diventare il Vasco Rossi della nostra generazione era troppo, o forse salcazzo, perché vai a sapere cosa si dice uno completamente completamente pazzo quando è completamente completamente chiuso in quell’abisso.
Non fa differenza, in fondo: resta che mi dispiace tanto, Flinty.
Grazie di tutto, davvero.