“Smart working” è una locuzione aberrante
In questi giorni di quarantena, carestia e psicosi legata all’epidemia di coronavirus ne avrete sentito sicuramente parlare: tra chi lamenta di esserci stato costretto e chi sostiene che sia finalmente giunta l’ora che prenda piede, è inevitabile che abbiate sentito le parole “smart working”.
Persino la paludatissima Rai Radio 1, stamattina, intervistava un professore di un fantomatico “osservatorio smart working” del Politecnico di Milano, al quale il conduttore, col solito tono da media generalisti dell’anziano che chiede al nipote di raccontargli della sua nuova diavoleria senza che gliene freghi davvero niente, domandava, per l’appunto, in cosa consistesse questa roba dello smart working che tanto piace ai giovani.
Ora, intendiamoci, il problema, a mio avviso, non è che finalmente si parli di lavoro da remoto, di valutazione delle performance in base a obiettivi concordati, misurabili e indipendenti dal numero di ore passate in ufficio e di responsabilizzazione e fiducia all’interno di un team di lavoro: il problema è assolutamente di natura lessicale.
Finché tutti (e non solo) i concetti elencati sopra passeranno sotto il nome di “smart working”, continueranno a essere qualcosa di eccezionale, un contentino che il padrone elargisce ai dipendenti anziché l’unico modo sensato di lavorare.
Lo potete notare già ora in una serie di stupri lessicali che ho già visto in giro, come annunci di lavoro che millantano “un giorno di smart working alla settimana”: che cazzo significa, che un giorno alla settimana vieni valutato in base al contributo che dai al team e il resto invece a quanto tempo scaldi la scrivania? O ancora, vi sarà capitato di sentire amici o colleghi dire “oggi sono in smart working”, che a me suona come un’ammissione che invece il resto dei giorni non serva a niente.
Sarebbe bello, in un mondo ideale, che l’epidemia di coronavirus non fosse il momento in cui lo “smart working” prende piede, ma quello in cui il “working” prende piede e finalmente ci liberiamo del “dumb working”, quello del 9-18 in ufficio perché “ci spiace non possiamo fare altrimenti il contratto collettivo dice così”, delle code ai tornelli in uscita alle 17.59, del micromanagement e delle riunioni inutili.
Intanto, per favore, davvero, piantatela con sta stronzata dello “smart working”.