Dieci anni fa di questi tempi giocavo a calcio molto più di adesso: ok, adesso non ci gioco per via della pandemia, ma dieci anni fa giocavo tranquillamente almeno un paio di volte a settimana, e credo fosse proprio l’estate di dieci anni fa in cui mi capitò di giocare tutti i giorni in una settimana.
Anche se giocare a calcio mi piace un sacco (e mi manca un sacco, adesso), non sono neanche lontanamente bravo, anzi, ma dieci anni fa, a furia di giocare spesso, ero se non altro in uno stato di forma migliore di adesso e quindi, a differenza di adesso, capitava che giocassi davanti, giocando a cinque, come quelli forti.
In una partita di un martedì sera qualunque, giocavo appunto davanti.
Non sono mai stato uno che corre tantissimo senza palla: davanti, a cinque, giocavo tanto spalle alla porta, al massimo andando incontro a ricevere per poi cercare di girarmi o di giocare coi compagni, e proprio spalle alla porta è successa quella cosa che compie dieci anni in questi giorni.
Arriva, non ricordo nemmeno da che direzione, una palla alta, morbida, che mi passa sopra lentamente: non posso metterla giu, perchè ormai è praticamente dietro di me, per cui cerco di colpirla di testa, in torsione, girandomi sul lato sinistro verso la porta.
A scriverla così è una giocata completamente inutile, chissà che cazzo avevo in mente di fare con quella palla impossibile da controllare e da rendere pericolosa.
Mentre mi giro per colpire la palla, forse la colpisco, forse no, non me lo ricordo nemmeno più, perchè quello che mi ricordo è che il difensore che avevo alle spalle va anche lui a colpirla di testa, in direzione di fatto opposta alla mia: sono scarso di testa, basso, pesante e con poca elevazione, ma quella volta devo averlo anticipato bene, perché lui la palla non la prende.
Prende me, in faccia.
Minchia - mi dico - che botta, mentre porto le mani alla faccia, e mi accorgo che metà della mia faccia non c’è più.
Sparita, metto la mano e non c’è.
Ed è qui che succede il miracolo, quello che senza forse non sarei qui a raccontarla, o sarei in un posto completamente diverso a distanza di dieci anni: il culo vuole che tra le persone, alcune le solite alcune no, con cui gioco quel martedì ci sia uno che fa il radiologo al San Raffaele, che dice “vabbè vieni ti porto in ospedale che vediamo cos’è”.
La mia partita finisce in anticipo, faccio la doccia e mi cambio senza capire bene che cazzo è successo alla mia faccia e vado al San Raffaele a fare una tac che, giorni dopo, scoprirò essere così:
La mia faccia non è sparita, è solo schiacciata in dentro, come se col pollice schiacci in dentro la parete di una lattina, o “frattura multipla dello zigomo e del pavimento orbitale” che dir si voglia.
Passo la notte in pronto soccorso al San Raffaele, perché la diagnosi è quella ma la prognosi è “noi non sappiamo bene che cazzo farti, domani mattina vai al San Paolo, (non lo stadio, l’ospedale) che hanno la chirurgia maxillofacciale e vediamo se loro hanno delle idee”, tra vomitate, deliri causa molti - ma non abbastanza - antidolorifici, l’occhio sinistro che ormai è più in basso del destro e cose così, e la mattina dopo mi mettono su un’automedica e con la calma del caso ci facciamo tutta la tangenziale all’ora di punta del mercoledì mattina per andare al San Paolo.
Il mio primo ricordo del San Paolo è che mentre entro nel reparto di chirurgia maxillofacciale penso “speriamo che qui mi dicano che possono farci qualcosa” e dal fondo del corridoio il medico che poi mi opererà dice “dategli immediatamente un letto, è strafratturato”.
Dopo un tempo indefinito mi operano, aprendomi tra la gengiva e la guancia e fondamentalmente scappellandomi la faccia come se fosse una maschera, per riestrarmi lo zigomo incassato e sistemarlo con sette placche di titanio, alcune delle quali sono ancora qui con me mentre scrivo questa cosa, a dieci anni esatti di distanza.
Tra tutto, ci ho messo quasi un anno a pensare di avere di nuovo la faccia più o meno come prima, perché le placche, quelle che ho tolto, le ho tenute su sei mesi (e la storia di quando le ho tolte è un’altra storia incredibile, forse persino più di questa) e, soprattutto, ci è voluto un bel po’ perché si ricostruisse il nervo che avevo schiacciato, cosa che non era sicuro sarebbe successa, e recuperassi la sensibilità della metà sinistra della faccia.
Ci ho messo dei mesi a tornare ad allenare i bambini, quasi un anno a colpire di nuovo la palla di testa, e tre anni a superare la paura e tornare a giocare io.
In questi dieci anni, il barattolino con le placche che mi hanno tolto è sempre stato con me: ha cambiato casa con me, è venuto a Londra con me, ed è ancora con me.
Ogni tanto lo riguardo e mi dico “sono sopravvissuto a cose peggiori”.